Conversazione con Laminarie
LAMINARIE nasce nel 1994 dal lavoro teatrale
di Bruna Gambarelli e Febo Del Zozzo. Il suo linguaggio secco, particolarmente
sensibile alla consistenza fisica della scena e dell’attore,
si impone sorprendentemente all’attenzione della comunità
teatrale nel 1996 con Tu misura assoluta di tutte le cose, vincitore
del Premio Iceberg di Bologna. Dopo Poema della forza (1997), il
gruppo si segnala ancora per Eudemonica (1998-2000), progetto triennale
“di ricerca della felicità” diviso in altrettante
tappe – o Stratagemmi – che trovano sede rispettivamente
a Bologna, Palermo e Plovdiv (Bulgaria). Un lavoro, quest’ultimo,
ardito e rigoroso, in cui coincidono sperimentazione teatrale e
coinvolgimento etico, filosofia e pratica attoriale, all’insegna
di alcune impegnative tracce testuali di Schopenhauer, Simon Weil,
Louis Jouvet e Jordan Radickov. Agli spettacoli maggiori, il gruppo
alterna alcune fortunate produzioni di teatro per ragazzi, come
Il principe stregato (1999) e La guardiana delle oche (1999). Infine,
se i successivi Esagera (2000) e Bisce (2001) confermano la maturità
di una ricerca in atto, gli ultimi lavori sembrano portare LAMINARIE
da un lato verso un inedito ricoinvolgimento delle qualità
polifoniche della parola teatrale (Serpenti e Bisce, 2002), dall’altro
sulla soglia di un’attitudine teatrale reattiva alle più
recenti verifiche sul piano della produzione visiva, come dimostra
il recentissimo video L.
Fabio Acca:
Ho apprezzato molto in Esagera questa vostra qualità artigianale,
il senso della ricerca fisica dell’oggetto. Un retaggio se
vogliamo antico, ma che per la centralità drammaturgica delegata
ad esso fa pensare alla Raffaello Sanzio. In entrambi i casi, l’oggetto
si illumina di una vitalità perversa, luciferina, che spiazza
completa-mente l’attesa sulla sua funzione. Il corpo dell’attore
ritorna, ma semmai come simu-lacro oppure anche come fisicità
estrema, raddoppiata dalla celebrazione dell’atto fun-zionale
all’oggetto e dalla sua visione scenica. Nel valzer delle
definizioni che come sempre annebbiano la mente di noi studiosi,
chiamerei il vostro lavoro “minimalismo plastico”. Il
gesto più sottile ha come un’ampiezza titanica, una
sovraesposizione che ne centra la bellezza. E questa bellezza è
spesso colta nel suo sottrarsi, mai nella sua invadente evidenza…
Bruna Gambarelli:Mi incuriosisce
molto il tuo discorso sulla bellezza. Lo deduci dallo spettacolo
o avevi già letto dei materiali sul nostro lavoro? Fabio:
È un tema che mi pare torni spesso nell’intero arco
della vostra produzione. Bruna: Ritorna sempre. Entrambi gli “stratagemmi”
– Stratagemma n. 1, realiz-zato a Bologna nel 1998; Stratagemma
n. 2, realizzato ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo nel
1999 con attori palermitani; e infine lo Stratagemma n. 3, elaborato
in Bulgaria nel 2000 con attori del teatro statale di Plovdiv –
erano spettacoli veramente ostici, molto rigorosi e complessi, a
partire dalla scelta dei testi (Louis Jouvet, Simone Weil, Jordan
Radièkov). Anche lo spazio scenico, per quanto ampio e profondo,
non concedeva allo spettatore la possibilita di codificare facilmente
il senso preciso dello spettacolo. Maria Concetta Sala, pur conoscendo
pochissimo il nostro percorso artistico, scrisse per lo Stratagemma
n. 2 delle parole che ci colpirono per la loro precisione: “…una
sospensione materializzata in un corpo di attrice… distesa
su un asse mette in relazione l’alto e il basso e sposta anche
in senso fisico la prospettiva traducendo la ricerca di vuoto in
“stato di bellezza””. Ha colto l’obiettivo
senza aver parlato con noi, senza aver visto i nostri spettacoli
precedenti, dopo avere assistito ad uno dei nostri lavori in cui
si cercava veramente di porre lo spettatore in uno stato di vuoto.
Fabio:
Credo che il problema della bellezza sia, in maniera più
o meno esplicita, uno dei motivi ricorrenti delle ultime generazioni
teatrali. In Esagera la bellezza appare nel momento della sua sospensione,
e non nella sua evidente, arrogante e macabra esplicitazione. Questo
è molto coraggioso: andando a teatro, assistiamo spesso a
spettacoli in cui, nel solco di una tradizione neo barocca, la bellezza
si impone come volontaria ricerca di una evidenza estetica “architettonica”.
E non dimentichiamoci dunque la controscena politica di questo andamento,
alla possibilità e il dovere etico di considerare la bellezza
come strumento di potere, ai livelli bassi come a quelli più
alti della significazione. Il vostro caso mi ha incuriosito per
la relazione originale intrattenuta con questa categoria, perché
è un lavoro di sottrazione: il confronto con essa rimane,
non viene rimosso, piuttosto è sospeso, lasciato liberamente
alla percezione dello spettatore, che lo può cogliere, nonostante
la macchina teatrale, nei segni più minuti dell’attore
e della scrittura scenica.
Bruna:
Una macchina teatrale potente finalizzata però ad
un lavoro di sottrazione. In Esagera, il testo dei Racconti della
Kolima di alamov si riduceva a sole due righe e mezzo. Le altre
parole non erano neanche tratte dai Racconti della Kolima, bensì
dagli appunti di Irina Sirotinskaja. Un testo di cinquecento pagine
messo in scena con venti quintali di ferro…!
Fabio:
Esiste dunque una continuità, negli spettacoli precedenti,
rispetto a questa idea di bellezza.
Bruna:
Pur con modalità diverse, questo fatto della sottrazione
è sempre stato presente, fino al punto di lasciare accadere
– nello Stratagemma n. 1 – qualcosa di temibile: il
non senso. Pur in maniera non del tutto consapevole, ci siamo abbandonati
a ciò che capitava in quel momento e realizzava in pieno
il nostro interesse, radicalizzandolo e portandolo alle estreme
conseguenze; abbiamo creato una scenografia concettualmente “perfetta”:
sei stanze blu, e ogni blu aveva una gradazione diversa; in mezz’ora
di spettacolo un’attrice, da sola, recitava un lungo pensiero
di Schopenhauer. Il corpo dell’attore in scena manteneva un
rigore ineccepibile, sottolineato da movimenti perfettamente simmetrici.
Un lavoro teatrale come ricerca di uno stato di vuoto, che ci per-mettesse
di incontrare quella bellezza “pura” che non ha niente
a che fare con la figura. È stato l’incontro con Simone
Weil a suggerirci questa direzione: l’attenzione come stato
di grazia, la bellezza come stato di vuoto. Eravamo arrivati quasi
a un punto di non ritorno
Fabio:
Se la ricerca della bellezza è generalmente intesa come un
atto propositivo, la vostra sottrazione non riguarda unicamente
i termini estetici in cui essa si dispiega, ma anche e soprattutto
il suo immediato verificarsi. D’altra parte, lavorate sullo
spettacolo inteso come macchinazione, anche ad un livello microscopico,
in cui è concesso al pubblico di cogliere la bellezza nel
piccolo gesto, nel particolare di un volto. Nel vostro video L,
che condensa efficacemente in pochi minuti un’attitudine poetica,
ho notato molti segnali di questo genere: l’attore che appare
e scompare, le azioni rubate
Bruna: Soprattutto nel Poema della forza,
la macchina era molto complessa: una grande calamita, con cui si
potevano spostare oggetti attraverso le pareti, come nei cartoni
animati. Ebbene, in questa enorme macchina, illuminata con una luce
bianca in modo da fare risaltare il rosso acceso e lucido della
scenografia, così lucente da potersi specchiare, l’attore
doveva semplicemente aprire una mano con le spalle rivolte al pubblico:
un’immagine ferma, con un significato implicito. Perciò,
la grandezza della macchina amplificava ogni gesto semplice, facendolo
diventare enorme, anche attraverso la dilatazione del tempo. Ognu-no
era libero di entrare in questo tempo dello spettacolo.
Fabio: Infatti,
un altro elemento molto interessante nel vostro teatro è
proprio la dilatazione del tempo e perciò dello sguardo;
lasciare il tempo allo sguardo, affinché si possa appoggiare
sui fenomeni indicati dallo spettacolo. Lo spettatore organizza
ciò che gli permette la propria qualità percettiva.
Febo Del Zozzo: Personalmente, non ho
alcun interesse a dare allo spettatore una codificazione esatta
dello spettacolo, dargli la chiave della sua compren-sione. È
un problema di linguaggio. Il mio modo di lavorare non aderisce
ad una “volontà” di esprimere, non contestualizza
una data situazione espressiva o il suo specifico funzionamento.
Un po’ egoisticamente, lascio allo spettatore la possibilità
– se è disposto – di cogliere un mondo. Se vogliamo,
è anche un discorso elitario
Bruna: Come hai visto in L, tutte le
nostre scenografie sono stanze, ambienti, spazi con limiti molto
precisi, illuminati altrettanto precisamente. Nulla è lasciato
al caso: dal punto di vista visivo, tutto è piuttosto rigoroso,
geometrico. Diversa e opposta è, invece, la prospettiva data
al linguaggio di ciò che accade dentro lo spazio.
Fabio: Pensando
ad L, questo in qualche modo esplicita la tensione interna del vostro
lavoro ad organizzarsi in immagini, perché dà la possibilità
a ciascuno dei vostri spettacoli di creare delle intensità
forti su singoli frames. Anche nel video, dunque, si produce quell’apertura
di senso di cui si parlava prima, determinata forse anche dal montaggio,
dalla casualità?
Bruna: Certo, nel momento in cui metto
in relazione due cose che apparentemente
non possiedono alcun senso comune, come il testo e le immagini.
Fabio: Come sono
state scelte le immagini?
Bruna: Le frasi non hanno un diretto
legame con le immagini che si vedono. Ci sono momenti in cui emergono
delle similitudini basate su altre cose. Per esempio, il fatto che
ci sia una signora anziana che parla delle mele, crea un’assonanza
con il lavoro sulla signora anziana di Esagera. È un “metodo”
in parte casuale. Abbiamo scelto di montare le immagini del nostro
lavoro in modo tale che l’opera finale avesse un senso compiuto,
aldilà di Laminarie, oltre il fatto che le immagini fossero
state prodotte e appartenessero alla nostra storia. Il video doveva
essere un oggetto artistico “in sé”. Una delle
idee iniziali fu di selezionare lo stesso “oggetto”
nella serie dei diversi spettacoli – una mano, un viso…
– qualcosa che passasse trasversalmente sulla superficie dello
schermo. Ciò nasceva dalla particolarità espressiva
delle persone che appaiono nei nostri spettacoli. Poi, durante la
lavorazione, abbiamo scelto – direi quasi casualmente, senza
dargli troppa importanza – il film di Lars Von Trier L’ele-mento
del crimine come elemento di raccordo. Non esiste un legame specifico
tra la storia del film e quella di Laminarie.
Febo: È un metodo che riconduco
agli incontri avuti durante la realizzazione dei nostri spettacoli.
Tu misura assoluta di tutte le cose aveva al suo interno un testo
di Kafka. Lo spettacolo però non è partito dalla lettura
della sua Lettera al padre: abbiamo creato prima una situazione
teatrale di oppressione, di gravitazione, di schiacciamento, di
peso su due figure. Siamo partiti, cioè, da un principio
fisico. Poi, nei due mesi successivi, abbiamo lavorato anche sulla
voce, dalla gravitazione fisica all’oppressione metaforica,
politica. Il testo era lì, è stata la disponibilità
ad una coincidenza, così come l’incontro con Lino Greco
per la realizzazione del video.
Bruna: In realtà, nel nostro
lavoro teatrale usiamo il video con molta cautela: tranne una sola
volta e per motivi documentari, non è mai intervenuto all’interno
di un nostro spettacolo. Penso che il video sia un’opera d’arte
a sé, un linguaggio che non deve invadere il lavoro teatrale.
Va usato con molta attenzione. Lino Greco, che ha curato insieme
a noi le immagini di L, è una persona che conosciamo dal
1997, ci ha seguito per molti anni. Il merito di questo video è
in gran parte suo.
Febo: Ha saputo cogliere e coniugare
il nostro lavoro. È faticoso, per noi, trovare la chiave
di volta per racchiudere la nostra storia… si rischia di cadere
nella trappola autocelebrativa del “raccontarsi”. Per
noi era un problema
Bruna: Per me era anche divertente…
un giallo!
Fabio: Nel frattempo,
mi sono venuti in mente due percorsi. Se il percorso tra le suggestioni
letterarie e lo spettacolo spesso non è immediato, sempre
depistante e depistato, sarebbe importante descrivere il momento
della coincidenza. Poi, ragionando ancora sulla bellezza, mi pare
che nei vostri spettacoli l’oggetto soverchi lo sguardo, acquisti
una specie di autonomia malata, che svela in qualche modo la radice
“ raffaellesca” del vostro lavoro. L’oggetto in
scena non è mai neutro o conciliante. In questo senso vedo
una volontà schopenaueriana, una sorta di corrente autonomizzante
dell’oggetto. Riguarda la capacità dell’oggetto
di rappresentarsi…
Bruna: Su questa qualità dell’oggetto
non posso che risponderti affermativa-mente, è abbastanza
evidente. Gli spettacoli hanno tutti genesi molto diverse e tuttavia
comuni. Solitamente, la genesi parte da Febo e dall’immagine
che Febo ha di un oggetto. A parte rari casi – Serpenti e
Bisce, a cui stiamo lavoran-do, ha una direzione testuale inedita
a noi sconosciuta – succede come in Tu misura assoluta di
tutte le cose: si parte da una dimensione fisica per poi incon-trare
un testo. Esagera, invece, è nato diversamente, abbiamo letto
il romanzo di alamov e poi abbiamo creato lo spettacolo. Però,
sia avvenga prima l’in-contro con un testo, sia con uno stato
d’animo o un’immagine, alla radice dell’atto creativo
c’è sempre l’oggetto. Mi risulta più complicato
rispondere alla seconda parte della tua domanda, sul fatto di come
l’oggetto acquisti una propria autonomia. Mi sembra quasi
ov-vio. Non saprei dirti… È chiaro soprattutto quando
la scena è vuota, e ci sono – per esempio – solo
due marionette che si muovono. Abbiamo seguito Schopenhauer soprattutto
in riferimento al primo Stratagemma.
Fabio: Come distinguete
i ruoli all’interno della creazione degli spettacoli?
Bruna: Sono stata più attrice
di Febo quando lui stava più fuori dalla scena. Quando Febo
è in scena, io intervengo maggiormente nella regia, senza
però decidere, per esempio, sulla scenografia. Dipende dal
lavoro. Sono sicuramen-te legata più di Febo alla scelta
dei testi, mentre per lui è più importante l’aspetto
visivo e artigianale.
Febo: Il mio impegno registico sta procedendo
ora verso un diverso modo di lavorare con le attrici. Sto esplorando
il concetto di “unisono”, la dizione del testo in una
forma gestuale “corale”.
Bruna: È una questione –
direi – più visiva e tecnica.
Febo: Per me, tutto deve avvenire di
getto sullo spazio. Il testo viene modulato dagli attori senza organizzarne
preventivamente la modalità di dizione. Li spingo a reagire
immediatamente e velocemente sulla scena, dando loro stimo-li, codificando
le loro risposte, facendo in modo che le intuizioni aderiscano bene
a loro stessi. Bruna, invece, lavora diversamente, è più
metodica.
Bruna: E stiamo lavorando allo stesso
spettacolo, con le stesse persone, ma con una tecnica completamente
diversa…! Secondo me, Febo ha una tensione forte, determinata
e coraggiosa da un punto di vista tecnico e realizzativo. Non sarei
in grado di fare lo stesso, e non solo per una questione tecnica:
non ho la sensibilità giusta. Febo riesce a ricreare per
la scena una stanza vista in una figura, con venti quintali di ferro,
come per Esagera. Ha in mente con estrema precisione il risultato
finale. Così come per me è più facile agganciare
una scena ad un’intuizione letteraria, come per lo Stratagemma
palermitano.
Fabio: È
un’idea di montaggio…
Bruna: Sì, appunto. Febo lavora
più per immagini emotive e visive, che poi hanno bisogno
di una messa a punto.
Fabio: La definizione
di “attore” non corrisponde precisamente alle necessità
del vostro lavoro. Non sarebbe opportuno neanche chiamarlo “performer”…
Alle volte rientra in maniera visibile nel terreno della pura funzione,
altre diviene puro strumento.
Febo: Questo è molto importante.
Le volte in cui ho fatto l’attore, io non mi sentivo tale.
Mi sentivo piuttosto uno strumento essenziale alla codificazione
di una dimensione rappresentativa. Agisco in scena per modulare,
per dare ritmo. Questo è per me l’attore: dare ritmo
all’azione.
Bruna: Da qui la necessità di
togliere. L’intensità del camminare, o di un volto,
sono fatti reali e importanti nel nostro universo teatrale. Nel
momento in cui l’attore si pone come interprete, e quindi
entra nel palcoscenico con questa idea di interpretazione, non si
abbandona all’idea del vuoto, non è più uno
strumento. Non nel senso di interpretare il vuoto, ma in quello
di rimanere a disposizione della necessità del progetto.
In una dimensione di vuoto, l’attore elimina tutta una serie
di strutture che precedono l’azione. Qui entra in gioco quel
concetto che non sappiamo mai come definire… di “energia”.
Febo: La tensione oratoria di un testo
è in stretta relazione con la sua contro-parte corporea.
È l’attore che deve innervare fisicamente questa tensione
con qualcosa di proprio. Il gesto in sé non ha alcun valore.
Bruna: Quando recitavo in Tu misura
di tutte le cose, per rendere l’idea del testo senza volerlo
interpretare mi disponevo in una posizione per la quale la respi-razione
era fisicamente pressoché impossibile. Si arrivava ad una
tensione emotiva attraverso una tensione fisica. Ero in una posizione
tale che le parole faticavano ad uscire.
Fabio: Ma la latente
privazione a priori di uno stile non genera comunque un altro stile?
Bruna: Però quest’altro
stile non è generato dal desiderio edonistico dell’atto-re.
È un attore che esprime la propria presenza, la propria forza,
la propria energia attraverso le cose che fa, che non sono di tipo
declamatorio, che non sono di tipo convenzionalmente tragico.
Febo: Sono di tipo tragico “non
esplicitato”. La tragedia passa senza che questa si espliciti
in un testo.
Fabio: Però
così non si corre il rischio di avere come termine di confronto
solo la convenzione?
Bruna: Non so se sia la convenzione.
Comunque provo sempre un forte fasti-dio di fronte a quello che
io chiamo “l’attore che recita”. È una
sensibilità fisica.
Fabio: Tutto il
discorso sulla sottrazione che abbiamo affrontato fino a questo
momen-to, mi pare porti vicino a vostri “padri”, all’idea
di “soma”, all’individuo oggettivato che si esprime
nel suo mostrarsi…
Bruna: Tutto quello che stiamo dicendo
adesso è totalmente messo in crisi nello spettacolo nuovo.
Credo non andremo contro lo spettatore così come avevamo
fatto in Eudemonica, che raccoglieva i tre “stratagemmi”.
Ciò non significa che non ci sia da parte nostra un grande
affetto e una grande stima nei confronti degli attori quando questi
uniscono al talento l’essere “operai”, il sapere
costruire lo spettacolo. Purtroppo sono pochissimi: la maggior parte
degli attori desidera mostrarsi al di sopra dello spettacolo, e
in questo mostrar-si trasmettono principalmente la propria figura.
Credo invece che chi fa teatro oggi abbia bisogno di nutrirsi di
altro dal teatro. Da un lato, sento la necessità di parlare
e avere un confronto con chi si occupa di teatro, quasi rispondesse
ad un desidero innato di comprendersi attraverso lo sguardo del
proprio simi-le; dall’altra però sento il bisogno di
allontanarmi fortemente dal teatro, perché questa visione
costante mi farebbe ammalare. Spesso l’aspetto visivo di uno
spettacolo deriva direttamente da esperienze nel campo delle arti
visive. Il nostro lavoro, per esempio, ha molto a che fare con l’opera
di Malevic.
Fabio: L’idea
drammaturgica che sostiene i vostri spettacoli non ha paura di confron-tarsi
apertamente con il silenzio. Che valore ha per voi la noia? È
una ricerca? Mi riferisco alla noia “adorniana”: di
fronte al vuoto, alla piccola morte del silenzio, questa ti dà
anche la possibilità di percepire con nettezza l’esperienza
del trascorrere del tempo.
Bruna: Il sonoro, così come il
silenzio, sono diventati per la creazione teatrale elementi fondamentali.
In Esagera ci sono pochissime e brevissime parti di silenzio, e
l’unico minuto di vero silenzio precede la parola “esagera”.
In re-altà, io mi annoio in quegli spettacoli in cui in ogni
momento succede qualcosa. Mentre il mio ideale di noia è
quello che sopraggiunge dopo avere oltrepassato una certa soglia.
Quando in scena hai davanti una persona che sta in silenzio: il
primo minuto sei incuriosito, il secondo dici “aspetterà
qualcosa”, il terzo ti preoccupi, il quarto pensi “perché
fa così?”, il quinto sei in una dimensione straordinaria.
Se insieme stiamo in silenzio per cinque minuti, in questo tempo
creiamo un’alta qualità di esperienza l’uno dell’altra.
Fabio: Ma c’è
in voi una volontà provocatoria?
Bruna: Non so se sia provocatoria.
Fabio: È
dunque una dimensione poetica?
Bruna: Non partiamo dalla volontà
di provocare. È però certo che quando lo spettacolo
è finito, quando si vedono gli spettatori, si è totalmente
consapevoli di ciò che si è fatto.
Febo: In Stratagemma n. 1 ero consapevole
del rigore con cui avevamo costruito lo spettacolo. Bruna era terrorizzata:
ero dentro questa dimensione in maniera totale e aderiva completamente
al mio desiderio di quel momento.
Fabio: Comunque
siete consapevoli della risposta del pubblico. Quanto agisce questa
presenza sulle vostre scelte artistiche?
Febo: Niente, ma non nel senso
di una mancanza di considerazione. Al contrario, il nostro è
– una speranza francescana di generosità – un
dono.
Bruna: La consapevolezza del pubblico
entra in gioco quando questa presenza ti dà il punto della
tua maturità. Quando senti l’esigenza di avere qualcuno
davanti a ciò che stai facendo, vuol dire che lo spettacolo
ha raggiunto la sua maturità, e te ne devi liberare. Però
in Esagera c’è una cosa che non avevamo mai fatto negli
spettacoli precedenti, direttamente legata al pubblico: la didascalia
iniziale. Buio: “Signore e signori, vedrete alcuni momenti
della vita di Varlam alamov…”. È un liberarsi
la coscienza!
Fabio: Si pensa
sempre che il pubblico, prima di tutto, conservi nell’aspettativa
dello spettacolo una traccia narrativa. Questo elemento entra nella
vostra riflessione sulla consapevolezza del pubblico? Oppure date
per scontato che sia abituato ad un certo tipo di modalità
espressiva, per la quale è “normale” rompere
la catena narrativa e scomporre lo spettacolo per ricostruirlo attraverso
priorità più immediatamente visive, per immagini forti?
Bruna: Questo è un punto non
secondario, anzi, fondamentale. Noi siamo un teatro senza spazio,
non per scelta ma per impossibilità economica. E questo determina
profondamente la nostra attività produttiva. Non possiamo
permet-terci di pagare un capannone. Esagera è uno spettacolo
nato in un momento di gloria, in cui ci potevamo permettere di pagare
il noleggio di un capannone amplissimo, dove siamo stati il tempo
che ritenevamo necessario, lavorando in completa autonomia. Questa
condizione ci ha permesso di realizzare quel tipo di lavoro. Ogni
spettacolo, e dunque il suo pubblico, risponde alle necessità
e ai luoghi concreti di ciascuna realizzazione e committenza: Palermo
per lo Strata-gemma n. 2, un particolare giardino per La guardiana
delle oche, la Bulgaria per Eudemonica…
Febo: Se hai a disposizione dei mezzi
economici, puoi provare un materiale, e magari buttarlo se non corrisponde
alla tua idea creativa. Noi invece dobbiamo sapere fin dall’inizio
ciò che ci serve.
Fabio: Però
può diventare una risorsa se sai rilanciarne il senso in
modo originale.
Bruna: Nel nostro caso è diventato
una risorsa per vivere. O smetti di occuparti di teatro, oppure
trovi una soluzione alternativa che ti permetta di salvaguarda-re
ciò che ti interessa maggiormente. Quindi questo diventa
precisamente un modo di lavorare.
Fabio: La prima
volta che ho visto un vostro spettacolo, ho avuto la sensazione
di trovarmi di fronte ad un processo artistico molto definito, con
un’identità scolpita e una pregevole maturità
di linguaggio. Mi avevano poi colpito alcune vostre dichiarazioni
di poetica intorno ad Eudemonica, per la nettezza delle affermazioni.
Bruna: Quando abbiamo scritto quelle
parole, volevamo fare piazza pulita del passato… cercavamo,
in un certo senso, dopo quella sorta di dichiarazione d’iden-tità
che era stata Tu misura di tutte le cose e l’incontro con
Simone Weil, di ricominciare da capo. Ma nel momento in cui desideri
gettare via tutto, devi salvare le cose più significative,
altrimenti non ti rimane niente. Quindi la nostra ricerca è
ripartita dal gesto semplice, dalla punteggiatura. Abbiamo lavorato
su piccole cose, utilizzando i testi senza che questi sembrassero
avere alcun signi-ficato. Insomma, crediamo di avere avuto il coraggio
di denudarci, per tentare la scoperta di un nuovo linguaggio che
ci appartenesse in modo esclusivo.
Febo: Allora eravamo in una condizione
di cambiamento fisiologico. Lo svuotamento di cui parlano Schopenhauer
o Jouvet coincideva con una nostra situazione personale, come compagnia
teatrale, di completo disagio. Quando sei letteralmente “in
mezzo a una strada”, la rabbia ti porta neanche troppo coscien-temente
a eliminare tutto ciò che non è strettamente necessario,
rimanendo però nel terreno del teatro. Questo aspetto quotidiano
e concreto ha generato una condizione di lavoro.
Fabio: Spesso
il lavoro teatrale delle ultime generazioni ha, a mio avviso, la
debolezza di investire esclusivamente, in maniera anche alle volte
molto efficace, il sistema della rappresentazione scenica, e in
esso estingua il suo mandato. Il vostro lavoro, invece, oltre a
sondare alcuni aspetti morfologici della rappresentazione, esprime
un pensiero mediato sulle cose del mondo, non unicamente mirato
alle forme del teatro. Un pensiero aperto sulla direzione del vivere,
del mondo...
Bruna: Forse allontanare da se stessi
la realtà ti concede di osservarla con mag-giore lucidità.
Allontanare tutto ciò che ha a che fare con il realismo,
il naturalismo, con la comunicazione facile. Però allo stesso
tempo siamo consapevoli di vivere dentro una realtà influente.
Forse ciò che si vede nel nostro lavoro è proprio
questo, sia nelle scelte di tipo artistico, sia in quelle di politica
teatrale. Abbiamo scelto di essere indipendenti, autonomi, di affrontare
certi temi e di andare in certi luoghi: il lavoro nei Balcani, il
tema dei gulag… fino al paradosso della ricerca della nostra
personalità attraverso l’eliminazione della “personalità”.
“ Eudemonica è nato pensando agli autori che abbiamo
incontrato nei lavori precedenti. Nessuno di loro aveva scritto
specificatamente per il teatro, eppure quegli scritti contenevano
ciò che per noi è il teatro. Non ci siamo arresi di
fronte al desiderio di utilizzarli direttamente nel nostro lavoro.
Abbiamo preferito farci fecondare da loro in attesa di trovare una
lingua efficace che supportasse la loro forza. Questa lingua non
c’era perché non c’erano più i discorsi,
allora occorreva rifondare i discorsi. Per far questo dobbiamo spazzare
via tutto e, prima di tutto, la personalità, la biografia,
la narrazione, il prima. Ripartire dal vuoto, dalla grammatica,
dalla sintassi e dalla morfologia”.
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